mercoledì 28 settembre 2011

CLANDESTINO

CORRADO AGRICOLA
8/9 OTTOBRE 2011
FILISTO251 SIRACUSA
HOPENING SABATO 8 OTTOBRE h 18

filisto251, studio e collettivo di artisti periodicamente promuove scambi di esperienze con altre associazioni ed artisti. In occasione della settima edizione della Giornata del Contemporaneo promossa da Amaci (Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani), ha chiesto a Corrado Agricola, artista siciliano che da diversi anni vive a Firenze, di sviluppare e realizzare in loco un suo nuovo progetto interagendo con gli spazi condivisi dagli artisti che a filisto251 fanno riferimento e soprattutto con il territorio.

Intervista di Aldo Taranto

Nei precedenti tuoi lavori, soprattutto in Safety distance, analizzavi minuziosamente e direi crudamente  quei microcosmi domestici abitati da individui che si rispecchiano nel proprio status per trovare conferme alla propria esistenza: tautologia inversa che porta suo malgrado ad uno sdoppiamento tra l’esistenza e la sua immagine. Michael Foucault aveva colto quanto sia deprimente la fissità dell’immagine (propria) rispetto alla vitalità dell’apertura all’immaginario. E’ una questione di confini: tra me e te c’è una superficie che si chiama pelle, direi un confine superficiale.
I confini prestabiliti, ovvero quelli territoriali e falsamente identitari, non sono superfici quanto barriere, a seconda alte o profonde. Tu, con questo nuovo progetto, sposti il tuo angolo di riflessione su quello che viene definito dai media il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Quali collegamenti con il tuo precedente lavoro vi sono?

In Safety distance parlavo del mito dell'identità: in qualche modo evocavo l’individuo che trova conferma della sua esistenza e convinzione nell'esaltazione del limite tra sé e l'estraneità rispetto a sé. Riflettevo sullo spazio della relazione interpersonale e sulla capacità di condivisione dell'uomo oggi nella nostra cultura e civiltà occidentale. Rappresentavo la scena nella quale si coltivano conflitti tra personaggi, estranei tra di loro o anche appartenenti ad un nucleo familiare, comunque tutti interpreti dell'atteggiamento che ogni singolo cittadino adotta negli ambienti di condivisione sociale, dove solo il disturbo causato da parte di uno dei soggetti crea le condizioni per la conoscenza reciproca. Non altro che la parafrasi di quei comportamenti tipici della società mediatica la cui natura è semplificata dal sistema dell'informazione, la quale porta all'attenzione del pubblico, direi in maniera rapida e indolore, luoghi, persone e culture remote, solamente nel momento di un disastro o di una situazione d’emergenza.
Ed è proprio qui che s’inserisce questo mio ultimo lavoro: la nostra percezione del fenomeno dell'immigrazione clandestina non è diretta, la nostra conoscenza di quella drammatica realtà ci arriva attraverso i media nel suo aspetto più scomodo: gli sbarchi di clandestini si susseguono  giorno dopo giorno turbando la nostra tranquillità (apparente) e creando un disturbo. Diversamente da Safety distance, dove l'incidente determinava il punto della conoscenza, in Clandestino il processo è diverso. In realtà siamo a conoscenza solo della loro scomoda presenza. Cosa sappiamo di questa gente? Non parliamo con loro, non abbiamo spazi di condivisione. Conosciamo il loro paese di provenienza e possiamo immaginare la miseria e le condizioni che li costringono ad un viaggio al limite tra la vita e la morte. Lo spazio prossemico – cioè la distanza che ogni individuo pone tra sé e gli altri, i potenziali aggressori, gli indesiderabili per definire un'area di sicurezza – in Safety distance veniva rappresentato come uno spazio vuoto che denunciava l’incapacità dell’individuo di aprirsi verso l'esterno. In Clandestino l'area di sicurezza è rappresentata dai Centri di Accoglienza: un luogo non luogo, una barriera che non pone le condizioni per una reciproca conoscenza.
Ho provato ad immaginare, dunque, uno spazio vuoto, una casa, delle stanze dove depositare le tracce di un viaggio di un clandestino che racconta un po' di se e del suo mondo. Un ambiente d’interazione, ospitale, permeato di segni di una cultura lontana e il più delle volte fraintesa, proprio perché diversa. Il mio è un omaggio a tutti gli uomini, donne e bambini che hanno compiuto questo viaggio alla ricerca di un futuro migliore.
L'idea si è concretizzata nel momento in cui nella spiaggia di Marianelli (Noto), la sera del 7 Agosto 2011, è arrivato un  barcone di 15 metri proveniente dall'Egitto con 42 persone di cui 10 minorenni, rintracciate e  dalle forze dell'ordine e condotte nei centri di accoglienza. Il barcone rimasto arenato in spiaggia per settimane, lacerato e scomposto dalle onde, è stato isolato, i suoi numerosi pezzi recintati in aree interdette sulla spiaggia, esattamente come le persone che vi erano a bordo: distanza di sicurezza, per garantire l'incolumità dei bagnanti. Il barcone in spiaggia diventa un'attrazione turistica, dove scattare foto ricordo e magari farci un salto dentro per sentirsi parte di un pezzo di storia contemporanea.


Cees Nooteboom dice che nell’arte araba non ci sono ne volti ne figure umane cui poggiarsi e non c’è altro che forma, costruzione, decorazione, geometria e armonia. Nessun appiglio, solo vertigine, finché non scopri che nelle decorazioni si celano lettere e parole. Chi non conosce la lingua araba è come un cieco  di fronte a quei segni e benché può vederli la sua bocca non è in grado di formulare il suono di quelle parole, la loro melodia: cieco e muto.
Tu stai lavorando con la scrittura araba, ti senti anche tu un po’ cieco e muto?

La mia conoscenza del mondo arabo è limitata ai viaggi, all'incontro con amici e alle letture. Sono stato sempre affascinato dalla scrittura araba. In realtà anch'io sono un po’ cieco e muto nel senso che non conosco la lingua e non so pronunciare il suono di quelle parole. Mi piacerebbe moltissimo conoscerla. Ma ho colto sempre, nei caratteri della scrittura araba, un senso profondo di armonia. E quando ho visto, per la prima volta lo spazio dove creare il lavoro, ho immaginato che per coprire il senso di vuoto delle stanze, dove depositare il lavoro di documentazione del viaggio, della fuga e i resti abbandonati nel luogo dello sbarco, avrei avuto bisogno di qualcosa che suggerisse il senso di una forma armonica. Un modulo decorativo con un contenuto. Cosi ho cercato un testo  che contenesse in se le tracce della parola viaggio o dell'idea del viaggio in un contesto di tradizione. E per tradizione intendo qui il significato profondo e il senso della parola preghiera. Lo scritto che riporto in mostra è semplicemente la spiegazione di come eseguire in forma ridotta le cinque preghiere rituali (salat) giornaliere durante un viaggio. Se per esempio una preghiera contiene quattro raka'at (posizioni), si riduce a solo due per agevolare le persone in viaggio. Volevo lasciare la sensazione  di un coro di voci, ma delle quali non puoi sentire il suono. Muto. Solo segni di una grafia che molti di noi non possono pronunciare. Dunque l'impossibilità di far proprio un pensiero scritto: la stessa cosa che sicuramente vivono i clandestini quando entrano in un paese straniero.
Il secondo testo in arabo(*), inserito nel contesto del lavoro, non è propriamente una preghiera ma una richiesta di aiuto un'invocazione. 
L'islam distingue tra salat, le preghiere rituali quotidiane, da recitarsi in determinati ore prescritte, e varie forme di preghiera libera, privata e personale.


Perché la preghiera?

Mi chiedi perché la preghiera. Credo che in un momento di estremo bisogno molti di noi hanno avuto bisogno di invocare l'aiuto divino o se non altro di affidare il proprio destino a qualcosa di superiore. Ho immaginato tutte le persone che in un determinato momento si trovano in uno di quei barconi: le ho viste affidare il proprio destino al loro Dio, chiedendo di poter arrivare sani e salvi, come ultimo desiderio.

Con questo lavoro porti la tua riflessione verso un più vasto teatro rispetto a quello dell’angusta relazione in cui si consuma il solipsismo dell’individuo della nostra civiltà occidentale: la scena include mare e terra, frontiere reali ed immaginarie e orde di umani  in viaggio. Il viaggio è meta e territorio da attraversare. Da clandestino l’attraversamento (il deserto, il mare) è l’incognita. E la meta è invece sicura? La domanda risuona nel tuo nuovo lavoro, cosicché non è più certo cosa sia metafora di cosa, se la safety distance  tra gli individui sia metafora della distanza tra le culture o viceversa. Il ribaltamento delle immagini nelle tue opere è tanto arbitrario quanto disarmante. Sono le contraddizioni e fratture dell’attualità che si riflettono nella condizione di solitudine e isolamento dell’uomo o viceversa le chiusure e la sclerosi dell’individuo a specchiarsi in quelle? Cosa è specchio di cosa? O non è questa doppiezza più vera e più completa, una realtà?

La realtà del clandestino, del sans papier ricorda la nave dei folli: ma se quella navigava  all’infinito toccando diversi porti abbandonando l’uomo all’incertezza della sorte, i clandestini sono condannati a girare in tondo come in uno stagno, il loro status è per l’appunto stagnante.
Viaggiare, spostarsi, migrare, mettersi o essere in movimento sono condizioni note e comuni alle civiltà umane di tutte le epoche e zone geografiche che si esplicano di volta in volta con significati e modalità diverse. Il tema del viaggio è quindi universalmente riconosciuto e rilevante. E' significativo che il viaggio ricopre un campo metaforico ampio e acquisito in modo simile in tutte le civiltà. La vita umana di per sé stessa è il cammino, il pellegrinaggio, la via di mezzo. La letteratura italiana ce ne offre un chiaro esempio con il "cammin di nostra vita" di Dante.
Incontrando un clandestino, un immigrato, possiamo avere il desiderio di aiutarlo o di mandarlo via. Ma per un attimo pensate al suo viaggio e capirete cosa ha dovuto fare per arrivare nel nostro paese.
Quando ho affrontato questo mio nuovo lavoro ho immaginato uno spazio vuoto, una casa, delle stanze dove depositare le tracce di un viaggio di un clandestino che raccontassero  un po' di lui e del suo mondo: un ambiente d’interazione ospitale, permeato di segni di una cultura lontana  e il più delle volte fraintesa, proprio perché diversa.


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(*)  Allah è il più grande, Allah è il più grande, Allah è il più grande. Lo lodiamo per aver reso possibile per noi questo viaggio e contro di lui nulla possiamo. Certamente ci riuniremo al nostro Dio. Oh Allah, ti chiediamo buona sorte e pietà durante questo viaggio e forza per pregarti. Oh Allah, rendi questo viaggio facile da intraprendere e breve la distanza da percorrere. Oh Allah, sei il nostro compagno in questo viaggio e sei l'unico a cui affidiamo le nostre famiglie che abbiamo lasciato. Oh Allah, cerco il rifugio in te dalle sventure e dai pericoli di questo viaggio. Allah, proteggi le nostre famiglie e le nostre case dalla povertà fino al nostro ritorno.




venerdì 4 febbraio 2011

Le voci di Rabat

Sebastiano Mortellaro ha realizzato per il Museo Regionale d’Arte Contemporanea Palazzo Riso di Palermo l’opera: La possibilità negata. Frutto di una residenza a Rabat, capitale del Marocco, nell’estate del 2010, l’opera fa parte della mostra Resident, a cura di Giovanni Iovane, in corso al Museo Regionale Palazzo Riso fino all’1 maggio 2011. 

La nuova opera di Sebastiano Mortellaro, La possibilità negata, racchiude e sintetizza, già nel titolo, la tensione che si genera nel conflitto tra due opposti. Se l’impossibile è fuori dalla portata della realtà effettuale e perciò non può accadere, il possibile negato rappresenta invece già il manifestarsi di un cambiamento nonostante la forza contraria che non lo vuole.
La statica della geometrica installazione – in cui i singoli elementi insieme compongono i vertici esterni ed interni della stella presente nella bandiera del Marocco – è posta alla prova, è scossa da sussulti sonori: manifestazioni di protesta di cui l’artista ha registrato il sonoro durante la residenza a Rabat. Ad ogni slogan urlato dai manifestanti una vibrazione scuote e sfalda la montagna di semola di cuscus, posta sopra ciascun elemento costituito da una antenna parabolica satellitare, riducendola man mano ed evidenziandone i singoli granelli.
Un singolo individuo non fa la Storia, ma un progresso inizia sempre con la presa di coscienza del suo isolamento. Ciò lo porta ad imboccare una strada nuova passando per luoghi fino a quel momento mai percorsi e ad entrare in conflitto con l’autorità e la tradizione, non semplicemente esterna a sé, ma interiorizzata.
L’opera ha un suo tono emotivo, oltre ché visivo e narrativo, che concretizza le relazioni sociali intessute dall’artista, durante la residenza, con un certo numero di altri artisti del luogo, insieme all’osservazione del paesaggio fisico e sociale della città di Rabat e delle sue periferie. In Marocco, più precisamente a Rabat sede della residenza, Sebastiano Mortellaro ha potuto sperimentare l’arte come veicolo per ridefinire sé stesso e il mondo intorno, per gettare uno sguardo sul contesto sociale caratterizzato da una tensione tra l’ancoraggio alla tradizione e il desiderio di cambiamento avvertito soprattutto dalle nuove generazioni. In ciò mette a nudo nella sua opera luoghi comuni e stereotipi attraverso i quali le individualità vengono sospinte a far massa indistinta anziché popolo, raccogliendo l’insofferenza nelle voci di tanti artisti del luogo per lo stereotipo Occidentale di un Marocco ridotto a nient’altro che a fez e cuscus.
Dieci antenne paraboliche satellitari fissano i vertici interni ed esterni della stella presente nella bandiera del Marocco. Sono fissate su consistenti mattoni da edilizia di cemento. Qui si coglie il paesaggio nella sua fisicità, da cui l’artista ha ricevuto una forte impressione: un dispiegarsi su ogni casa o palazzo, indifferentemente delle periferie o del centro, dei quartieri ricchi o poveri, di una quantità di antenne paraboliche, per l’appunto. Un’infinità di “orecchie” tese, come avide di “comunicazione”. A fronte di coloro che hanno scelto di sfidare il mare su barconi di fortuna per raggiungere i paesi "ricchi", altri rivendicano fieramente l’andare oltre – restando; l’imprescindibile necessità di comunicazione nel doppio verso dell’input e dell’output. Perché basta un’antenna parabolica di qualche decina di euro per captare i “segnali” del mondo, basta una connessione internet per dare “segnali” al mondo.
Se la realtà è più reale in “presa diretta”, se gli avvenimenti acquistano consistenza semplicemente entrando nella sfera mediatica, se la funzione dei media è quella di amplificare i messaggi, le istanze e la voce dei soggetti, per spettacolarizzarli – ecco, l’opera d’arte, contraddicendo la cultura passiva mercantile e cercando di frantumare la logica dello spettacolo, si concretizza anche come fattore di relazioni sociali contaminanti, in bilico tra funzione e contemplazione, ci restituisce il mondo come esperienza da vivere. L’uso artistico del mondo, nel dare validità collettiva alla coscienza ampliata delle singolarità, fornisce l’impulso necessario a ridefinire nuove costellazioni soggettivanti, coscienti della propria diversità.
Ecco i dieci elementi di La possibilità negata, i dieci punti che segnano i vertici della stella marocchina, vibranti di voci, cuspidi rovesciate, corolle di fiori emergenti dal sommovimento!